“Che mi è accaduto?”. La metamorfosi che ha afferrato il corpo è avvenuta lungo l’arco di una notte, all’insaputa dello sguardo. Ancora poco filtra dalle fessure create dall’alba, se non la sensazione di un disequilibrio; una insofferenza che ancora non ha avuto modo di confrontarsi con la progressiva diminuzione di una identità stabilita. Non esattamente un dolore; certamente non un fastidio. Una condizione privilegiata, a suo modo, che non si sarebbe potuta affrontare in luce durante il suo instaurarsi. Nemmeno una nostalgia. Piuttosto una muta accettazione, così come accade ai rettili, maestri di mutazione: un blando – irrevocabile - allontanarsi dalla propria pelle originaria. Nessun residuo lasciato sul pavimento racconta la condizione del passaggio, nessun deposito rinsecchito testimonia che altro è avvenuto che non si può riportare a fenomeni consueti. Senza lasciare scarti, ogni cellula si è reincorporata in se stessa riutilizzandosi, divorandosi quasi, in un’addizione che paradossalmente non aumenta il risultato finale e consegna quel corpo rinnovato al giorno che arriva. La prima ora di luce piena trascorre nel guardarsi, di sbieco dapprima poi con maggior franchezza; fino al momento in cui – lo sa – qualcuno aprirà la porta con occhi impreparati. Allora sarebbe di conforto ricevere un amoroso “Che ti è accaduto?”, accompagnato da un bacio di accettazione. Ma pazienza, pazienza: tra meno di un’ora conosceremo il verdetto scritto negli occhi altrui. Cui rispondere, non ci piacesse, con indifferenza sovrumana.

Massimo Zamboni

 
 
 
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Massimo Zamboni su Metamorfosi/Repurpose